giovedì 4 agosto 2016

Umanesimo in economia

Mi piacerebbe avere in mano una bacchetta magica che funziona, ma mi occupo, dallo scranno più o meno elevati della mia professione, di teoria politica, e lo faccio nella città di Trieste che ho eletto tanti anni fa – e adesso anche vivendoci – come locus animi, il che vale a dire come nuova Patria dell’anima, e voi tutti capite se parlando dell’anima vi dico che essa non può esistere se non nel libero scambio tra gli uomini.
Non faccio politica attiva per migliorare la vita quotidiana della città – o del nostro paese, l’Italia - o per dare un futuro migliore ai nostri figli, e sapete perché? Perché non ne sono capace, specialmente da solo.
I grandi cambiamenti sociali ed economici che ci coinvolgono tutti ci hanno suggerito che dalle grandi difficoltà o si esce completamente trasformati, o non se ne esce affatto, e non credo che nessuno di noi voglia veramente questo.
Il motivo di base del mio lavoro è quello di riconoscere e anche diffondere in economia, finanza e mercati quell'umanesimo che proviene dalla cultura e che altro non è se non libero scambio di idee e di fatti. Per sconfiggere l'indifferenza. Sì, proprio quell'indifferenza che nasce o dalla mancanza di comprensione delle cose oppure dall'ignoranza - nel senso che non ci se ne occupa - di quelle stesse cose.
Non è più tempo di politiche del “fare” o del fantomatico “cambiamento” e di chi parla sempre e solo di diritti.
L'idea di base è che nulla deve essere cambiato, ma che tutto debba essere migliorato per farlo funzionare come si deve. Ci concentriamo sul comprendere le cose e i loro effetti, quindi una politica del capire che inevitabilmente diventa un movimento non più solo dei diritti – sacrosanti quando non colpevoli di falsità – ma finalmente dei doveri. Ognuno a casa sua.
Conviene a voi quindi darmi retta? Solo l’uomo è capace di provare la fede, la ragione e la speranza, spesso espressa oltre ogni misura; questo è detto bene dalla poetessa polacca Wislawa Szimborska, Premio Nobel, la quale in una sua poesia diceva che l’orca ha un cuore che pesa cento chili ma che non può usarlo per natura, e ne è contenta, al di là della sua semplice funzione fisiologica. Quindi un cervo autocritico o una gallina buddista non si danno, ma nemmeno un politico oggi degno di questo nome, visto che la politica – di cui tutti abbiamo bisogno – oggi è diventata un lavoro. Io un lavoro ce l’ho già, e posso fare teoria politica perché non ho niente da nascondere, neanche le mie incapacità, visto che ve le sto spiegando.
Ne vale la pena?
La nostra vita tra le persone è una tensione tra risonanze concettuali, echi di memorie, sentimenti, colori e percorsi di luce e di buio.
L’uomo, l’economia e la politica oggi interferiscono senza controllo; questa loro interferenza produce veri disastri, dove “disastro” significa “pioggia di stelle”, ma in questo caso si tratta di una pioggia acida.
Le origini del malvivere di oggi – come tutto da noi in Europa – deriva dal contrasto tra il pensiero greco e il Cristianesimo e si estende al comportamento dell’uomo in mezzo agli altri. Vince chi arriva prima, ma se questo è vero in una gara, non lo è mai in una società, dove tutti hanno lo stesso peso – o dovrebbero – e chi perde muore.
Il nostro futuro, che fino ad oggi ci siamo rubati a vicenda, non funziona più perché non stiamo capendo che stiamo commettendo un delitto verso le generazioni più giovani.
L’obbiettivo che le classi “colte” della nuova società di oggi si propongono – riuscendoci - è normalizzare ciò che per secoli la coscienza comune ha considerato eccezionale o addirittura inaccettabile, portando ad abbandonare i concetti di limite e di misura; chi segue queste cose proverà l’ebbrezza di sentirsi dalla parte del Bene e del Giusto e quindi non darà disturbo ai fautori di Nuovi Ordini e dei Nuovi Uomini, disposti a fare di tutto pur di raggiungere lo scopo.
In questo spettacolo di disgregazione vengono meno anche i codici di riconoscimento reciproco tra le persone e il loro valore, perdono significato i concetti di popolo e di nazione, incalzati dallo spettro di un’umanità omogenea e indistinta, ma liberale, consumista, multietnica e di fatto avviata al monoculturalismo occidentale.
C’è ancora chi si scandalizza, io per esempio. E lo faccio in pubblico, perché non ho paura di essere segnalato alla “polizia” del pensiero che ci dice cosa dobbiamo pensare e perché.
Certo, c’è chi reagisce, non potendone più.
Ma tutti esprimono il loro disagio esclusivamente nella forma del rifiuto, dell’astensione, del distacco. Il loro modo di dire no all’andazzo corrente è il silenzio, il “non ci sto” che però non sente nessuno perché non viene mai detto.
Il “politicamente corretto” che con i mezzi più vari, inclusa la violenza, si sforza di impedire alle opinioni altrui qualunque espressione, ci fa apparire spontaneo il giudicare eccessivo il prezzo da pagare per esporsi, anche perché o siamo tutti indebitati o schiavi della finanza, la sorella perfida dell’economia.
La dissidenza silenziosa è sbagliata perché si finisce che non lo sa nessuno e con il mettere in circolazione un veleno pericolosissimo, che ha già raggiunto ampie zone delle nostre società: la rassegnazione.
Insisto nel mio dissenso, che è anche la proposta: comprensione e spazio ai doveri.
Senza rendercene conto, stiamo aderendo come non conformisti e liberi pensatori a un conformismo di benpensanti che alla fine ucciderà noi e il nostro futuro.
La rassegnazione a fenomeni come l’immigrazione di massa, la disgregazione del concetto tradizionale di famiglia, la pretesa di far scomparire idee come quelle di sesso e di etnia, nella direzione di un accomodamento continuo per compiacere il Grande Manovratore, che è la logica del tempo presente, che tutti sperano porti ad una vita meno faticosa e dolorosa.
Questo non elimina il male e il disagio, ma li nutre.
Le coscienze provano commozione e compassione, giudicando male chi pensa che il cambiamento passi attraverso i sacrifici, pensando che qualcuno, comunque, alla fine ci penserà e rimedierà. Vedendo arrivare il proprio turno, l’Europa è destinata a far fronte a una forte crescita di conflittualità sociale e di ingiustizie, e il lavoro non serve più a produrre ma a difendere la ricchezza già prodotta, perché l’Occidente ha i giorni contati e le vittime saranno molte, dato che già ci sono.
Quello che faccio è la promozione di idee, progetti e soluzioni su un livello metapolitico. La conquista di una nuova e bella mentalità, attraverso la riflessione e la conoscenza, mi farà vincere o perdere una battaglia, ma il giorno in cui almeno una persona si scuoterà dal torpore, imparerà ad ignorare le lusinghe dei teorici dell’inevitabile accettazione dello stato presente delle cose e si scuoterà di dosso la rassegnazione, mi farà vincere la guerra.
“Nessuno ci crede più, ormai”, si sente dire da più parti. Io sì.