Io le mie passeggiate le faccio da un lato all'altro della mia biblioteca. Mi dispiace per voi, ma è così.
Prendo in mano un libro che si distingue per il colore marrone
deciso e chiaro. E’ una biografia di Croce di un certo Nicolini e mi ricordo di
averla trovata in un fondo di biblioteca. Lo leggo distrattamente qua e là e
noto la cura che l’autore pone nel racconto dei particolari più interessanti
per me, quali ad esempio la concentrazione profusa dal filosofo nel lavoro
quotidiano e gli orari osservati.
Croce faceva degli orari giornalieri divisi in tabelle e poi alla
fine della giornata leggeva sui foglietti quanto fosse riuscito a rispettarle.
Molto spesso lavorava anche di notte.
Teneva sempre completamente in ordine la sua scrivania e se doveva
citare da un libro lo andava a prendere e poi, esaurita la citazione, lo
riponeva nello scaffale e fare questo con una biblioteca di oltre centomila
volumi doveva essere una bell’impresa.
Quale tempismo.
Quando mi trovo a lavorare alla scrivania voglio sempre ordine
davanti a me e anche intorno; è sempre una specie di rappresentazione ideale
dell’ordine che vorrei dare alle idee. Non so di preciso, ma tanti ammucchiano
le fonti davanti e dietro le scrivanie e poi, se dopo qualche settimana serve
qualcosa che hanno sepolto sotto le scartoffie vecchie di giorni, non sanno più
ritrovare nulla.
No, no, è meglio lavorare con l’ordine materiale di una scrivania
sempre sgombra di libri, carte e riviste specializzate. Io suppongo di fare
così per dare sfogo a un desiderio di ritorno ad una condizione verginale del
lavoro intellettuale.
Non so bene se è così che si deve fare. Altri ci hanno del resto
già pensato.
Infatti si tratta, più che di volontà o di desiderio di verginità
intellettuale, di desiderio di verginità interiore di cui ho sempre tanto
bisogno.
Credo che sopra tutti gli scrittori francesi abbiano probabilmente
il monopolio di quest’ossessione verginale, assieme ai tedeschi, basando
proprio su questo il loro comune odio per gli inglesi. Schiller o Shakespeare
riescono ad esprimere questa mancanza culturale in modo molto invitante.
Shakespeare addirittura lo fa nell’Enrico IV ambientando l’opera a Bordeaux, in
Francia, nella città delle streghe. Ma anche Freud quando parla della verginità
è documentatissimo, come sempre. E’ un po’, quello della documentazione, il
pallino e nello stesso tempo il vanto dei viennesi.
La ridefinizione culturale, la ricapitolazione di tutto il sapere
che ogni intellettuale si sente organicamente adatto a raggiungere, è la morte
della vita. A parte il fatto che ad un certo punto della propria vita qualunque
scrittore vorrebbe essere anche un po’ austriaco, tra il padre e il genitore
dell’opera intellettuale esiste sempre un’equazione nel senso che entrambi ne
sono responsabili come sanno essere responsabili gli intellettuali.
Gli intellettuali sono sempre stati la rovina del mondo. Hanno
creato la storia delle idee per far credere a tutti che stavano lavorando.
Guardo la pagina
del Louis Lambert di Balzac quando dice: “Spesso ho compiuto viaggi deliziosi,
facendo vela su una parola negli abissi del passato, come l’insetto che, posato
sull’erba, scivola alla mercé d’un fiume. Partito dalla Grecia, arrivavo a Roma
e attraversavo la distesa delle epoche moderne. Qual bel libro non si
comporrebbe raccontando la vita e le avventure di una parola? E non è così
anche per ogni verbo? Tutti sono impressi dal potere vivente che traggono
dall’anima e che le restituiscono attraverso i misteri d’una azione e d’una
reazione meravigliosa tra la parola e il pensiero”.
Non so stare senza Dio. Mi piace attraverso quello
che faccio ma non so stare senza.
Molte volte mi sembro Giobbe che soffre per niente perché Dio non
esiste.
Come bene diceva
Sant’Ambrogio, il male è la roccia dell’ateismo e come diceva bene quel mio
amico l’altra sera, io non sono Giobbe.
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